Home » Il medico di corte di Per Olov Enquist

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Recensione

Sì, lo so. Qualcuno, forse tanti, me ne vorrà perché questo è ritenuto da più parti uno dei migliori titoli del catalogo Iperborea, peccato che a me non abbia convinto nemmeno un po’. Di per sé il libro ha un contenuto interessante, dai precisi e mirati riferimenti storici, e infatti ero molto attratta dalla storia di questo medico che è riuscito a sostiuirsi al sovrano di Danimarca, Cristiano VII, affetto da gravi paologie mentali, e a governare in sua vece gestendo gli intrighi di palazzo e i tumulti socio-politici, ma purtroppo lo stile narrativo freddo e distaccato, quasi didascalico non mi ha coinvolto per nulla. Il testo appare, nella sua interezza, come uno strano ibrido, una sorta di saggio con la pretesa di essere considerato un romanzo. E’ un linguaggio, a mio avviso, che disorienta e allontana il lettore, che non capisce bene come interpretarlo: se saggio “accademico”, passatemi il termine, o fiction. Il narratore esterno, infatti, mi ha dato l’impressione di essere un insegnante davanti a una classe, con quegli intercalari tipici di una comunicazione colloquiale tesi probabilmente a instaurare un legame con il lettore o ad alleggerire lo scirtto. Ho abbandonato la lettura dopo le prime 60 pagine. Proprio non riuscivo a continuare. Peccato.

 

 

 

Trama

«Tu sei un sentimentale, amico mio, un San Francesco tra i poveri di Altona. Ma ricordati che sei un illuminista. Devi guardare lontano. Oggi, tu vedi solo gli esseri umani davanti a te, ma guarda oltre. Sei una delle menti più brillanti che conosca, e una grande missione ti attende… Potresti applicare le tue teorie nella realtà. Nella realtà.» È così che Johann Friedrich Struensee, giovane medico tedesco, idealista, impregnato di idee illuministe, taciturno e schivo, viene convinto ad accettare l’incarico di medico personale, e poi Primo Ministro, del re di Danimarca Cristiano VII, quel re diciottenne intelligente e sensibile, che scambia lettere con Voltaire, e che una mostruosa educazione  conduce volutamente sull’orlo della follia, perché si perpetui il vuoto di potere di cui la Corte ha bisogno per mantenere il proprio. È il 1768: per quattro anni la Danimarca conosce una rivoluzione che anticipa, senza sangue, senza terrore, le conquiste della Rivoluzione francese di vent’anni dopo. Dalla libertà di pensiero, di stampa, di culto, alle più avanzate riforme sociali fino al progetto di eliminazione della servitù della gleba: in seicentotrentadue decreti Struensee, intellettuale ignaro dei giochi della politica, firma la propria rovina, aprendo la strada a quella reazione che Guldberg, pietista assillato dalla missione di salvare la Danimarca dal peccato, non farà che pilotare. Ma è innamorandosi della regina che Struensee decreta la propria condanna. Quella Caroline Mathilde, giunta smarrita quindicenne dalla corte inglese a Copenaghen come sposa del re, che diventa in poco tempo, con la scoperta della passione e dell’eros, una donna libera, viva, conscia del proprio potere e capace di usarlo con lucidità. Una rivoluzione che ha il suo momento magico nella breve felicità di una passione. I meccanismi del potere, il dilemma dell’intellettuale davanti all’azione, il «guardare lontano» senza più riuscire a «vedere vicino», laicismo e fondamentalismo, la forza liberatoria dell’eros e l’ossessione della purezza, la luce della ragione e il suo lato oscuro, la follia e il desiderio: gli ingranaggi della storia riportano sempre in scena lo stesso dramma, ma nella danza della morte in cui sono trascinati i personaggi, resta sospeso nell’aria il suono di un flauto, la musica della libertà e dell’amore, l’ostinato sopravvivere delle idee che non si lasciano decapitare.

 

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