Ah Thilliez, Thilliez! Questa volta, almeno per me, non ci siamo. Ed è un enorme, immenso, inspiegabile e assurdo peccato.
Non dico che il romanzo sia brutto, tutto sommato è un poliziesco (non thriller) ben costruito e congegnato e i personaggi sono ben caratterizzati, ma Thilliez mi e ci ha abituato a vette alte, altissime, ci ha “coccolati” con thriller psicologici cervellotici e adrenalinici, quindi di conseguenza anche le aspettative, su ogni suo libro, sono alte. Aspettative che purtroppo nel suo ultimo romanzo, Norferville (Fazi Editore, pp. 384), almeno per quanto mi riguarda, sono state un po’ deluse.
La storia, rispetto a quelle precedenti uscite dalla penna dell’autore francese, è lenta e banale, o meglio, è molto simile alle trame di tantissimi altri polizieschi in circolazione e la tensione tipica della sua scrittura (colpi di scena, inquietudine, incubi a occhi aperti) fatica a emergere, o forse non vuole proprio emergere, visto che si tratta di un diverso genere letterario. Lo stile narrativo è sempre quello, però: belle le immagini che descrivono il freddo, l’isolamento, l’ambiente ostile. Intrigante come riesce a trasmettere certi stati d’animo, certe emozioni. Tuttavia, ho avuto la sensazione che Thilliez abbia un po’ sacrificato la vicenda centrale, cioè l’omicidio in un paesino sperduto del Canada del Nord della figlia di Teddy, criminologo francese che affianca Léonie, la detective incaricata di seguire il caso, in favore di quello che in realtà avrebbe dovuto essere un aspetto secondario, un corollario per inquadrare le dinamiche del racconto. Sto parlando di tutta l’orribile, e disgraziatamente fin troppo reale, situazione che da decine di anni, se non forse da secoli, i nativi americani sono costretti a subire da parte di quegli occidentali che hanno colonizzato il Nuovo Continente: vessati, colpevolizzati, rinchiusi in riserve, schiavizzati e usati per i lavori più duri, umiliazioni, depredati delle loro terre e privati della loro cultura. Per carità, giusto parlarne, non è nemmeno la prima volta all’interno di un poliziesco, ma forse gli ha dedicato troppo spazio e per tutto il romanzo Léonie, figlia di una innu (una nativa) e un uomo bianco, non perde mai occasione per sottolineare e rimarcare questi aspetti. Non voglio essere fraintesa neppure riguardo al romanzo in sé: Thilliez resta comunque un grande autore, il romanzo in questione è comunque un buon poliziesco e sa intrattenere, ma ho faticato ad arrivare alla fine e a riconoscere le peculiarità dell’autore in questa storia. Non sono riuscita a immergermi tra le sue pagine e a sentirmi coinvolta. Capita. Lo sconsiglio? No, anzi, lo consiglio a chi vuole conoscere un Thilliez diverso, a chi vuole un romanzo cupo ma dai toni “tranquilli” e senza ansie, utile semplicemente a staccare la spina.
Cinzia Ceriani
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