LOGICA PERVERSA di Annalisa Farinello

Venerdì, alla fine di una giornata in reparto, Maria Berica Piva salutò Andrea Fina, il collega che si apprestava ad affrontare il turno di notte e si diresse verso l’ascensore.
Sarebbe stata libera già dalle 20.00 ma aveva sostituito Andrea fino ad ora. Andrea era capogruppo del consiglio comunale e Maribe, come la chiamano gli amici, era stata ben felice di aver coperto quelle ore di servizio per due buoni motivi: il primo perché Andrea oltre che collega era anche un caro amico, l’altro, perché sarebbe stato più semplice dall’ospedale e non da Gambugliano dove abita, raggiungere Padova.
Inserì la tessera magnetica riservata al personale del reparto di neurologia. Questa misura di sicurezza era stata adottata da quando un paziente si era infilato nell’ascensore eludendo la sorveglianza di infermieri e medici e, sceso fino all’interrato, si era perso nel dedalo di corridoi che risalivano alla vecchia struttura ospedaliera.
Il paziente era stato trovato in preda a una crisi di panico.
Con il leggero cigolio di sempre l’ascensore arriva e Maribe getta un ultimo sguardo al reparto.
La sua figura snella si staglia tra la penombra del reparto addormentato e la luce dell’ascensore.
Capelli e occhi neri, carnagione scura ereditati dal padre, il sorriso spontaneo e accattivante dalla madre.
Un ultimo sguardo al reparto e preme il tasto del pianterreno.
Con passo veloce scende i pochi gradini che la separano dal garage sotterraneo, preme il bottone del portachiavi dell’Audi e, la chiave ripiegata come un coltello a serramanico, si sguaina pronta per essere inserita.
Qualche volta le è capitato di fare e rifare quella mossa per il solo piacere di sentire quello scatto sotto le dita!
Apre la portiera e getta lo zaino sul sedile.
Sale in macchina e poggia la mano destra sul cambio.
E’ in simbiosi con la sua macchina, una Audi TT nera.
Le piace moltissimo l’assetto di guida di quel piccolo bolide, il cambio sportivo con l’asta corta in alluminio e pelle nera.
L’orologio del cruscotto segna le 23.15; è ora di andare.
In pochi minuti arriva al casello autostradale di Vicenza Est.
Non imbocca la corsia per auto fornite di telepass, anche se la sua auto ne è provvista.
Dopo le prime curve di accesso l’attenzione è meno viva perché il traffico è limitato.
E’ piacevole il regolare rombo del motore e il fruscio delle ruote sull’asfalto nel silenzio della notte.
Il cruscotto illuminato le fa compagnia.
Trenta chilometri sono una distanza breve da coprire ma è un tempo lungo per i ricordi.
Come una vecchia pellicola in bianco e nero si affollano pensieri ed emozioni evocati da quel viaggio verso Padova.
Quante volte aveva percorso quella distanza!
Gli anni di università sembrano così lontani e sbiaditi, quasi non facessero parte del suo passato.
Eppure li aveva vissuti intensamente, innamorata del corso di laurea in medicina e di Claudio.
E anche dopo dieci anni dalla laurea, ogni giorno, nel contatto con la sofferenza e la fragilità umana continuava ad amare la sua professione.
Claudio era invece sparito, travolto dalla passione per Flora, la bella, ricca e assolutamente vuota figlia del primario di ortopedia della clinica universitaria. La chiamavano l’oca giuliva.
Era laureata in Psicologia ed era convinta di poter conoscere per questo le persone meglio di qualsiasi altro.
Con Claudio perlomeno aveva funzionato. Maribe, scorpione com’era, aveva chiuso definitivamente con entrambi e con gli amici che ruotavano intorno a loro. Fine della storia.
La paura dell’abbandono la conosceva bene, era stata una compagnia abituale per molto tempo, l’eredità che Claudio le aveva lasciato.
Quella paura che sostituisce il ragionamento all’istinto, che non ti permette di fidarti di nessun uomo quando dice “ti amo”.
Aveva preferito confidare sul rapporto di amicizia e riversare in esso aspettative più realistiche.
Poi la settimana scorsa quella telefonata. “Maribe sono Flora, ho bisogno di parlarti.
Tu e io abbiamo gli stessi ricordi…”
Maribe si era alzata dalla poltrona, aveva girato intorno alla scrivania ed era andata a chiudere la porta dello studio. La sua mascella si era contratta fino a farle male. “No Flora. Tu e io non abbiamo gli stessi ricordi, non abbiamo niente in comune tu e io, non so perché mi stai chiamando e non mi interessa saperlo. Dieci anni sono un tempo sufficientemente lungo per dimenticare qualsiasi cosa e tu e Claudio siete
sepolti sotto la cenere del mio oblio da lunga pezza.”
Nessuna risposta dall’altra parte del filo solo un pianto sommesso che la sensibilità di Maribe non seppe ignorare.
Un lungo silenzio e poi “Accidenti a te, e parla per Dio!
Si sentì una rumorosa soffiata di naso e poi Flora con la voce roca:
“Claudio ha un tumore al cervello, un astrocitoma. Non è operabile perché è troppo
esteso; comprime il chiasma ottico e gran parte del lobo temporale. E’ quasi cieco, ha dolori violentissimi e soffre terribilmente. Non è più autonomo e rifiuta di vedere chiunque lo conosca, anche me.
Sa di avere qualche mese al massimo di vita e che ogni giorno sarà peggiore del precedente. Lo spaventa di più il degrado fisico e la perdita di autonomia che lo priva della sua dignità che della morte stessa. Sono disperata. Gli stessi ricordi ho detto, i ricordi di Claudio com’era, tu e io lo abbiamo conosciuto bene e possiamo capire la tragedia della sua solitudine. Mi ha chiesto di aiutarlo a morire. Al mio rifiuto si è preso la testa tra le mani e tra le lacrime di un pianto sconsolato mi ha detto “Sono l’uomo dal fiore in bocca” e mi ha pregato di lasciarlo solo. Da allora si rifiuta di vedermi.”
Astrocitoma. Un tumore benigno del cervello che porta comunque a morte.
Avevo visto altri casi e sapevo il calvario dei pazienti affetti da questa forma tumorale che pur essendo benigna perché non metastatizza, è essere talmente espansivo da creare una condizione di sofferenza cerebrale progressiva.
La morte di aree sempre più vaste del cervello con la compromissione e perdita delle funzioni legate alle zone colpite fino alla morte.
E Claudio, si definisce l’uomo dal fiore in bocca, l’uomo solo con la sofferenza mortale che nessuno può capire e condividere.
Pirandello nella sua novella era riuscito a trasmettere così bene al lettore lo stato d’animo del protagonista condannato da un cancro in bocca, il fiore per l’appunto.
Perché Maribe non riesce a ricordare cosa provò quella sera e le sere successive alla telefonata di Flora?
Ricorda chiaramente come si era sentita quando decise di andare a Padova.
All’uscita del casello di Padova ovest si arriva in corso Australia e proseguendo verso la stazione il traffico si fa via via più intenso.
C’è ancora molta vita nella città universitaria nonostante l’ora. Aveva sempre confrontato Vicenza e Padova anche sotto questo aspetto.
Vicenza provinciale da sempre dopo le dieci di sera sembrava una città sottoposta al coprifuoco e così i Comuni limitrofi.
Passeggiare per le vie deserte offriva il piacere di ammirare le bellezze della città berica respirando la stessa aria degli antichi abitatori che secoli prima avevano segnato con i loro passi le viuzze del centro storico lastricate in sampietrini.
Maribe si sentiva provinciale come la sua città ed era felice di questa dimensione che ancora Vicenza conservava.
Via Falloppio e poi l’ospedale.
Le cliniche universitarie sulla sinistra e il vecchio ospedale sulla destra.
Parcheggia e scende dalla macchina.
Ha ancora il camice e dalla tasca destra spunta il fonendoscopio.
E’ un medico in servizio, sembra. L’ospedale lo conosce bene.
L’ascensore per il sesto piano non ha bisogno delle tessera magnetica. Non incontra nessuno e si avvia lungo il corridoio.
Al sesto piano ci sono solo pazienti di riguardo, camere singole e patologie diverse.
Dall’operato di appendicectomia all’infartuato dimesso dalla terapia intensiva, al dirigente d’azienda per il check up annuale.
Entra in reparto e all’azzurra luce soffusa dalle lampade notturne legge dal tabellone il nome dei pazienti e il numero della stanza.
Castaman Claudio n° 12
Claudio sarà sicuramente sedato pensa, e poggia la mano sulla maniglia della porta n° 12 senza esitazione.
Claudio dorme, l’ago infisso nella vena del braccio, la flebo che scende a goccia lenta.
Il viso è in ombra.
Un velo di barba sul volto.
Maribe estrae la siringa dalla tasca del camice, contiene cinque cc. di cloruro di potassio.
Il cloruro di potassio non è rintracciabile in un’eventuale autopsia, nessun mezzo anche il più moderno di indagine lo avrebbe rilevato. Non è un veleno nè un farmaco bensì un prodotto organico presente nell’organismo.
Immesso direttamente in circolo l’effetto è letale quasi istantaneamente.
Arresto cardiaco.
Infila l’ago nel deflusore e spinge lo stantuffo con calma e determinazione.
Da quel sonno Claudio non si sarebbe più svegliato.
Non avrebbe sofferto il degrado fisico e psichico che tanto temeva.
L’uomo dal fiore in bocca dormiva sereno per sempre.
Un bacio soffiato sul palmo della mano perché giunga fino a lui e lo accompagni.
Poi il ritorno.
Gambugliano dove abita, è un paese di ottocento anime, accovacciato su di una collina a otto chilometri da Vicenza; case tipiche venete con grandi portici e stalle ora quasi tutte ristrutturate.
Contrade di case affiancate su tre lati che danno nella tipica “corte” comune e qualche villetta di recente costruzione.
Quasi tutti gli abitanti del paese sono nati qui.
Le contrade portano il nome di famiglie antiche e nell’elenco del telefono cognome e via spesso coincidono.
La sua casa si trova in via Belvedere ed è proprio un belvedere da lassù.
Maribe arriva e apre il cancello con il telecomando.
La casa è buia e silenziosa.
Vive sola, nella casa che era dei suoi genitori e prima ancora dei suoi nonni, sola con il suo cane.
Una femmina presa al canile di Marola.
E’ difficile definirne le razze che via via si sono incrociate per dar luogo a quella bastardina.
Tutti dicono che è brutta e goffa perché ha le zampe storte, quasi un semicerchio peloso.
Maribe l’ha chiamata Gioia perché è con gioia che la saluta scodinzolando quando torna stanca dall’Ospedale e, quegli occhi un po’ acquosi e troppo sporgenti che la guardano con adorazione, sono per Maribel unici, più belli di quelli del più bel cane di razza.
Non entra in garage, lascia la macchina nel viale d’accesso.
Gira intorno all’edificio di mattoni rossi e si ferma sul davanti, sotto il portico.
Grandi vasi di terracotta accolgono piante di limoni cariche di frutta.
Erano l’orgoglio della sua mamma.
Limoni grandi come cedri, gialli come il sole della loro terra d’origine.
Finalmente si siede. La comoda poltrona di midollino l’accoglie quasi materna.
Poggia la borsa sulle ginocchia e senza guardare fruga all’interno.
Il suo sguardo indugia sul panorama fino a quando la mano trova il portasigarette.
Non deve cercare l’accendino perché è sempre li, sul tavolo ovale insieme al portacenere.
Fumare fa male e un medico come lei lo sa bene.
Ma nessuno è perfetto, ripete quando glielo fanno notare.
Accende la sigaretta e lentamente aspira; trattiene un po’ il fumo e lo osserva salire verso l’alto come fosse la prima volta.
Poi l’attenzione è tutta rivolta al panorama, il fumare diventa meccanico.
Il panorama lo conosce bene, è nata qui. Suo padre era il medico condotto di tre paesini Gambugliano, Monteviale e Sovizzo che si erano consorziati per potersi permettere un medico condotto che all’epoca veniva stipendiato dal comune.
Questa notte le sembra di vedere qualcosa di diverso, qualcosa che le era sempre sfuggito.
La luce è strana, l’estate caldissima quest’anno, lo sbalzo termico di questi giorni, l’ora particolare, il cielo nuvoloso o la luna al suo ultimo quarto?
La città in basso è un’enorme caleidoscopio.
Giochi d’ombre e di colore; il buio della notte e le insegne luminose, lampioni lungo le strade e fari nella notte.
La sigaretta è finita. La stanchezza l’assale.
Dormire è il bisogno più urgente.
Prima di infilarsi nel letto ingoia una capsula di stilnox; è la prima volta che ricorre a un sonnifero.
Si sveglia intontita e confusa.
Getta uno sguardo all’orologio e si accorge di aver dormito per dodici ore.
Si alza va in bagno e poi con un gran bicchiere d’acqua ingoia un’altra pillola di sonnifero.
Quando si risveglia sono le sette del mattino della domenica.
Apre la porta finestra che da sul giardino.
L’aria entra frizzante e un brivido le scende lungo la schiena.
Durante la notte la pioggia è caduta copiosa e nell’aria tersa brillano alla luce del primo sole gocce ancora sospese come pensieri non ben definiti.
Il caldo è stato davvero notevole quest’anno e l’estate sembrava non aver fine.
Anche in ospedale il disagio delle giornate afose si era fatto sentire a dispetto dell’impianto di condizionamento.
La pioggia di questa notte è stata una benedizione per la terra arsa e per gli uomini esausti.
L’aria è intrisa dell’odore di terra bagnata, un odore che alle narici di chi è nato in campagna, diventa profumo e promessa di raccolto.
Ma la sua mente è avvolta in una nebbia lattiginosa dove i pensieri si perdono, si dilatano e si comprimono.
Con uno sforzo si allontana dalla finestra per infilarsi quasi meccanicamente sotto la doccia.
Il getto tiepido dell’acqua l’avvolge in una nuvola di goccioline sottili che le sfiorano appena la pelle.
Aumenta il flusso d’acqua aprendo al massimo il miscelatore.
Ora il getto l’investe come una sassaiola che le toglie il fiato bagnando anche le più alte, piccole tessere a mosaico color glicine, che rivestono la parete.
Indugia a lungo immobile, come un corpo senza vita che non percepisce alcun fenomeno esterno.
Squilla il telefono e come per incanto la sua mano si solleva da lungo i fianchi per chiudere il flusso d’acqua.
Tutta gocciolante si affretta a rispondere.
E’ Carlo suo fratello. “Arrivo tra poco prepara il caffè che alle brioche ci penso io”
E’ strano, Carlo che arriva a quell’ora e di domenica per giunta.
Carlo è pediatra e ha scelto di esercitare la sua professione sul territorio piuttosto che in ospedale.
E’ pediatra di base come nostro padre era stato medico condotto.
Ha appena compiuto quarantatre anni, tre più di Maribe, è sposato ha un figlio di sei anni e abita ed esercita nel comune di Creazzo, a soli cinque chilometri da Gambugliano.
Si nota subito che sono fratelli, solo il colore degli occhi è di un bruno più chiaro, il fisico atletico di chi ha giocato a basket per anni e che ora ama la bicicletta come sport e come mezzo di locomozione quando gli è possibile, contribuisce sicuramente a mantenere la sua forma invidiabile.
Non c’è tempo per asciugarsi i capelli e Maribe senza curarsi delle impronte bagnate che lasciano i suoi piedi nudi sul pavimento , corre in camera a vestirsi.
Raccoglie i capelli lunghi e neri in un’unica treccia, l’avvolge in un asciugamano e la fissa con un elastico.
Un paio di pantaloni e una maglietta, i sandali di cuoio naturale e poi in cucina a preparare la caffettiera e le tazze.
Uno sguardo al suo volto riflesso sul vetro della grande finestra la fa trasalire: ha un aspetto orribile.
Si precipita in bagno e si passa un leggero filo di terra sul viso, un po’ di correttore sotto gli occhi, una sfumata di fard sugli zigomi, il rimmel sulle ciglia e per finire una goccia di profumo.
Carlo suona il campanello mentre sta uscendo dal bagno.
“Ciao sorellina profumi di Samsara come sempre, non hai dormito? Ti vedo stanca sei troppo buona e troppo attaccata al lavoro e in ospedale ti sfruttano. Perché non apriamo un ambulatorio insieme, tu e io faremo grandi cose credi a me.”
“Ok, ok, non ne parliamo più come al solito, continua a farti il culo. Ho una sorella masochista che ci posso fare?”
Lo sguardo di Maribe al fratello è stato eloquente.
Il profumo che esce dal sacchetto delle brioche fa prendere coscienza a Maribe di non toccare cibo da più di ventiquattro ore. “Mi vedi un po’ strana perché ho dormito tantissimo e non ci sono abituata, e non ho mangiato nulla. Tu arrivi di domenica a quest’ora con le brioche, piuttosto dimmi che diavolo succede.”
“Mangia quella alla crema, è squisita, beviamo il caffè e chiacchieriamo un po’, avevo voglia di vederti.”
Non è solo questo il motivo della visita pensa Maribe e aspetta che Carlo si decida a parlare.
Quando lo fa, Maribe ha la tazzina del caffè in mano.
“Claudio è morto ieri notte in ospedale a Padova ,volevo essere io a dirtelo.”
Maribe abbassa lo sguardo sulla tazzina, aveva dimenticato di averla tra le mani.
Pencola pericolosamente.
Un piccolo lago nero chiuso tra le sponde troppo strette di porcellana.
Ne rovescia un po’ sul piattino e sorseggia quel che resta nella tazza.
Il sapore è disgustoso ma forse è l’amaro che ha in bocca che prevale.
I suoi occhi, quando incontrano quelli del fratello, sembrano pozze d’acqua dopo il temporale.
Superfici liquide che riflettono solamente; la profondità non è percepibile.
Le sue labbra si muovono senza articolare parola, il cuore le batte all’impazzata.
Si alza e dice “Mi dispiace molto, sarà dura per i genitori e per la moglie.
Ti ringrazio di essere venuto. E’ stato comunque una persona che ha fatto parte della mia vita.”
Carlo risponde e una smorfia amara compare sul suo viso.
“La moglie addolorata, questa sì che è bella. Lo sfigato è Claudio ad averla sposata, con tutte le corna che gli ha messo! E adesso morire in un modo così assurdo! Porca miseria, ma è possibile morire di arresto cardiaco dopo un banale intervento di ernia inguinale? Da non crederci. Mi ricorda Fausto Coppi morto di malaria non riconosciuta, dicono. In ospedale è meglio arrivarci da illustre sconosciuto. E Claudio, aiuto primario di una prestigiosa clinica universitaria, muore da solo, durante la notte, al sesto piano del monoblocco nel “braccio dei vip”. Non farmi dire altro altrimenti mi rovino lo stomaco!”
Si abbracciano, un bacio sulla guancia e poi Carlo se ne va salendo sulla bici continuando ad agitare la mano in segno di ulteriore saluto.
Come anestetizzata Maribe si risiede in cucina.
Mille pensieri le affollano la mente, nessun pensiero compiuto.
I pensieri prendono forma, si insinuano come bisturi arroventati nel suo cervello, tentano di imboccare la strada della logica.
Li allontana, li disperde con rabbia.
Li costringe a vagabondare come pipistrelli ai quali ha strappato il sistema radar.
Tenta di creare tra loro e la logica una barriera.
La logica, sì la logica.
Pronta come sempre a mettere ordine, a fornire risposte.
E dopo la logica la coscienza davanti alla quale Maribe non ha possibilità di fuga.
Vorrebbe tanto sfuggire alla coscienza: e questa un’esperienza nuova alla quale non è preparata.
Molte persone acquisisco notevole abilità in questo gioco sottile, a loro non serve nessuno sforzo.
I pensieri scomodi scivolavo naturalmente in un percorso alternativo dove la coscienza è al servizio della logica abilmente manipolata.
Ora ricorda chiaramente come si è sentita quando decise di recarsi a Padova.
Dopo il conflitto che l’aveva dilaniata, lei che aveva sempre condannato l’eutanasia, che lottava ogni giorno per la vita, ora era pronta a tradire il giuramento di Ippocrate per Claudio, l’unico uomo che avesse amato, la dignità nella morte, come negargliela? Flora lo aveva abbandonato alla sua disperazione, solo lei poteva aiutarlo.
Eutanasia, la mia logica. E la coscienza lo aveva accettato. E la logica comincia a far ordine nei suoi pensieri.
E l’astrocitoma inoperabile, la cecità e le sofferenze di Claudio, l’uomo dal fiore in bocca, la disperazione di Flora? Perché Flora aveva telefonato proprio a lei?
La logica ha messo ordine e la coscienza è lapidaria.
“Io sono stata la mano assassina di Flora”.

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