Il gigante di Marco Amato

Prima che le nubi oscurassero il sole e le aspettative deluse infrangessero l’assoluto adamantino, un bambino se ne stava seduto sul marciapiede dissestato all’incrocio tra le Vie Papa Giovanni XIII e Giuseppe Verdi. Rannicchiato teneva sulle gambe paffute un foglio A4, che a più ripetizioni avrebbe studiato e ristudiato in quel lungo pomeriggio d’autunno.
Era un opera maestosa, disse la maestra che passava tra i banchi durante l’ora d’arte del sabato mattina e il bimbo se ne compiacque assai.
Aveva usato moltissime tempere e per sbaglio qualche goccia di colore si era riversata sul suo banco, ma non se ne preoccupò più di molto. Fortunatamente la maestra Rosanna non era isterica come quella di matematica. In quel bozzetto aveva dipinto casa sua, un bel sole giallo e la sua mano destra stretta a quella di un gigante talmente alto da oscurare la luminosa stella. Papà stava arrivando.
Sarebbe giunto con una macchina piena zeppa di giocattoli, uno per ogni giorno che non riuscirono passare assieme, e a giudicare dall’ultima visita sarebbero dovuti essere più di seicento.
Come ogni bambino che si rispettasse aveva diffuso la notizia ai quattro venti: tutti avrebbero dovuto sapere che il suo papà stava arrivando, da lontano, solo per lui. In cuor suo avrebbe barattato qualsiasi regalo in cambio di un suo arrivo anticipato. Le campane della chiesa ruppero il silenzio e il fanciullo scattò in piedi, tendendo l’orecchio verso est, là, dove si ergeva il bianco campanile. Contava i rintocchi come gli aveva insegnato Lino, il signore del quarto piano, premurandosi di non aver gonfiato il conto guardando il quadrante dell’orologio vinto nell’uovo di
pasqua di Action-Man.
Erano finalmente le quindici e l’euforia si fece incontrollabile a tal punto da fargli lanciare occhiate compulsive alle lancette dell’orologio. Il tempo sembrava scorrere lento e veloce assieme; scivolava via, ma stava inesorabilmente sospeso e pesante. Di nuovo passò una mezzora, poi altre due e così via fino a sera, ma lui rimase, lì, fedele come un cane.
Ovunque regnava il silenzio e dall’orizzonte nessun clacson annunciava la venuta tanto agognata. Il sole stava già calando. Ma non si diede per vinto. Decise di attendere ancora e ancora. Suo padre glielo aveva promesso e la parola data valeva più di ogni altra cosa per un bambino che amava incondizionatamente al di là dei torti. Rimase seduto, immobile, vittima delle adulte situazioni.
Di lì a poco una macchina avrebbe parcheggiato nel vialetto di casa e il compagno di sua madre, un uomo dai lunghi capelli brizzolati, si sarebbe seduto vicino a lui.
“Non è venuto nemmeno sta volta”
“Mi dispiace piccolo”
“Vorrei solo essere importante”
“Lo sei, figliuolo” lo prese tra le sue grandi braccia e lo strinse a se “Lo sei”
“Vorrei solo avere un Papà”
“Tranquillo un giorno lui capirà. Ora andiamo in casa. Non voglio che ti venga un raffreddore e poi, ho una
cosa per te”
Gli prese la mano destra e si diressero verso la lunga rampa che conduceva all’ingresso. Mentre camminava si rese conto di quanto era alto: un vero gigante in grado di oscurare le stelle.

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