Accidenti, deve accelerare un po’. Ogni volta, a ridosso di questa curva del cortile, va a finire che rischia di perdersi una parte del racconto. Spinge sul pedale destro con forza, calibrando male il gesto, e si ritrova a chiudere gli occhi e a contare le stelle che d’improvviso fanno capolino da sotto le sue palpebre. Che male. Deglutisce e cerca di non pensare alla botta sullo stinco che il pedale gli ha appena inferto, gentilmente, per l’ennesima volta. Tra qualche giorno crescerà una bella chiazza violacea e la mamma, dopo la doccia che ogni sera gli impone di fare, guardandola aggrotterà la fronte, creando quel mare di piccole rughette che tanto lo affascinano, e gli chiederà allarmata da dove arriva quella nuova botta. Come al solito lei si preoccupa. Ha paura che gli succeda qualcosa a scuola, magari qualche compagno che fa il duro con lui. Cerca sempre di tranquillizzarla, povera mamma, in classe va tutto bene, i segni che ha addosso sono solo quelli lasciati dalla sua curiosità, dalla voglia di sapere. E di stare bene. Appunto, meglio riprendersi e pedalare con foga, se non vuole perdere completamente il senso di ciò che stava ascoltando con l’ennesima pausa. Ogni tanto gli succede di rilassarsi e le figure davanti a lui diventano più piccole e perdono voce. Allora deve darsi una mossa. Gli capita anche quando parla, a scuola, davanti alla maestra. Più cose ha in testa da dire, e meno gliene escono. Ovvero, escono, ma a fatica. Ecco, quando pedala sulla sua bicicletta verde è uguale. Più ha voglia di andare avanti, e più gli capita di incepparsi stupidamente, come ha appena fatto. Poi, il mantello è lungo, e a volte si prende dentro. Perde l’equilibrio perchè ci mette troppa foga e allora i suoi movimenti non hanno quella meccanicità che dovrebbero avere, almeno così gli dice il dottore. Lui non ha mai capito perchè il dottore gli parla di meccanicità, come se lui fosse un meccanico. Non gli piacciono nemmeno le macchine. Comunque, sembra che il dottore piaccia alla mamma e allora vuol dire che è una persona seria e magari da grande lui diventerà un meccanico davvero e si ricorderà delle parole del dottore. Che aveva ragione, insomma. I grandi a volte hanno ragione, quindi non si sa mai. Oggi gli uccellini sono tutti già svegli. Cantano ogni mattina in coro e lui si chiede sempre se tra loro non ci sia un solista, qualcuno che ha la voce più bella degli altri. O qualcuno a cui le note muoiono in gola, come capita a lui. Un uccellino speciale, insomma. Che magari lo segue dall’alto, pur senza vederlo, e capisce che loro due sono uguali, e diversi da tutti gli altri. Magari non lo sa ma è lì anche lui per ascoltare. E magari alla scuola degli uccellini lui poi racconta a suo modo ciò che ha imparato anche quella mattina. Un suo gemello, insomma. Il fratello che non ha. Peccato solo che anche lui non abbia le ali, se ne andrebbe volentieri in cielo, piuttosto che continuare a farsi male su quella bicicletta verde. Forse in aria i pensieri pesano meno ed escono con più facilità dalla bocca, senza balbettii. Chi lo sa. Alza lo sguardo a cercare quel suo fratello speciale ma gli uccellini gli sembrano tutti uguali, da laggiù. Anche lui è uguale agli altri bambini? Anche per la maestra che lo guarda con quegli occhi buoni lui è uno dei ventisei alunni della sua classe, uguale a tutti gli altri? Pure se lo deve far seguire da un’altra insegnante che lo aiuti quando lui fatica a parlare? Boh, il mondo dei grandi gli lo sa davvero cosa vede la maestra quando lo guarda. Stamattina a scuola glielo chiederà. Ma bando alle ciance, deve ancora ridare quella pedalata magica che gli fa riprendere terreno, come il turbo dei suoi supereroi, quelli con cui gioca da solo, in camera, che di notte dormono sotto il suo letto per stare sempre pronti a difenderlo, in caso arrivi un nemico a volerselo portar via. Le figure davanti a lui si son fatte più lontane, deve dare gas e cercare di riavvicinarsi. L’uomo oggi ha una camicia a scacchi, verde e bianca. Le maniche sono corte e la pelle delle sue braccia sembra davvero tanto scura, a confronto. Come il colore dei mattoni con cui è fatta la casetta bassa dove il papà tiene gli attrezzi per il suo orto. Istintivamente abbassa lo sguardo a cercare le sue, di braccia, sa che hanno un colore roseo che tende al bianco del latte. Chissà se anche lui, da grande, avrà quei peli candidi che anche da questa distanza vede attaccati alla pelle dell’uomo. Ha guadagnato un po’ di metri, ora, e inizia a sentire nuovamente il suono così familiare della sua voce. È uguale al rumore che fa il mare quando è tranquillo, sempre la stessa nota che gli pare bassa e lo fa sentire al sicuro. Come quando la mamma lo guarda e gli sorride, e dentro ai suoi occhi chiari si forma un piccolo mare che poi esce piano piano. Sono i fiumi della felicità, gli dice sempre lei, fin da quando era piccino. Dentro ci sta tutta la felicità che la mamma sente quando lo guarda, e siccome è tanta, a volte deve uscire perchè non ci sta più. Ecco cosa sono quelle piccole pozzanghere di acqua. Una volta, quando ancora non andava a scuola, si ricorda di averle chiesto se poteva assaggiare quell’acqua magica che le usciva dagli occhi, voleva capire qual era il gusto della felicità, quando è tanta che deve uscire. Se l’era immaginato come la pizza, che gli piace tanto e lo fa tanto felice, perchè quella era la cosa che per lui voleva dire felicità. Invece, quando la mamma ha preso un suo ditino e se l’è portato all’occhio e poi gliel’ha avvicinato alla bocca, ricorda di aver storto il naso. Non è questo il gusto della pizza, mamma, le aveva detto deluso. Non sei felice quando la mamma ti tiene stretto tra le sue braccia? gli aveva chiesto lei allora. Lui aveva fatto cenno di sì con la testa. Ecco, questo è il gusto dell’amore della mamma. Così le aveva risposto lei, e da allora lui aveva imparato che l’amore ha un gusto strano, un po’ salato. La voce dell’uomo che gli sta davanti è come il gusto di quell’amore e lo fa stare bene. Quando la ascolta e prova mentalmente a ripetere le cose che ha appena ascoltato per fare le prove prima di andare a scuola dalla maestra, non gli capita mai di incepparsi. Le parole scorrono lisce, e non balbetta. Questo può voler dire solo che quella voce è magica, come l’amore della mamma che lo protegge sempre. E quindi anche quell’uomo deve avere la stessa acqua dentro agli occhi, che ha quel gusto salato d’amore. Non gli ha mai rivolto la parola, ma sa che prima o poi glielo chiederà. Parlava di nuvole, prima che lui si allontanasse. Il piccolo cagnolino ha il suo fiocchetto blu attaccato al ciuffo marroncino, come al solito. Sembra appena pettinato, e lui si immagina che l’uomo lo spazzoli ogni sera, come la mamma fa con lui dopo la doccia. Le persone piene d’amore fanno così, ne è sicuro. Il pelo è lucido e la luce del sole lo rende vivo, come lo scudo del suo supereroe, quello che ha la tuta blu e rossa. Il gatto, invece, è di due colori. Sembra una tigre ma non è giallo e nero. È bianco a strisce arancioni. Nella sua testa l’ha soprannominato Albicocca. Mentre il cane è Mister Big, perchè è piccolo piccolo ma di sicuro ha dei superpoteri che lo rendono grande. Ecco, ora riesce a sentire di nuovo, può togliere il turbo e pedalare normalmente, contando piano. Di solito il ritmo della sua pedalata coincide con quello del racconto dell’uomo, sono tutti e due lenti, come lumachine. Forse è proprio per questo che gli piace tanto seguirlo, pare che sia l’unica persona che si muove con la sua stessa velocità senza doversi sforzare. “Quando sentivamo nell’aria l’odore del temporale, l’eccitazione e la speranza sembravano due colori che di colpo si vedevano nel cielo. Era grande l’attesa, sempre, sapete. Da noi non pioveva quasi mai. Passavamo anche due o tre mesi senza sentire da vicino il suono di una goccia d’acqua. Vi chiederete come potevamo stare… Eravamo abituati, ecco. La polvere faceva parte di ogni nostra giornata, la polvere e il caldo. Io e i miei fratelli giravamo scalzi, tutto il giorno. I nostri piedini conoscevano le asperità del terreno, ormai, e cercavano di diventare loro amici, per non farci male.” Ecco già la nuova parola di oggi. Poggia il piede destro a terra, sollevando un po’ della polvere di cui l’uomo sta par-lando. Quando si sente abbastanza stabile, apre il suo marsupio e tira fuori il blocchetto spiegazzato e il pennarello dei Pokemon. In una pagina nuova scrive ASPARITA’. Spera di aver capito bene, come al solito. Spesso gli capita che poi la maestra non sappia dirgli cosa vuol dire la parola. Non esiste, gli dice. E lui si arrabbia con se stesso, perchè è sicuro che l’uomo non dice bugie, quindi non può raccontare una parola che non esiste. Deve essere per forza colpa sua, se poi questa d’un tratto non esiste più. Ma ecco che sta perdendo troppo tempo, come al solito. Guarda avanti e vede la compagnia già allontanata. Chiude il blocco, butta tutto dentro al marsupio rischiando di far cadere il pennarello e via, riparte a pedalare. Gli piace un sacco come le forme si avvicinano e si allontanano in fretta, a seconda di dove lui sta. Gli pare di fare una magia. Vorrebbe poterlo fare sempre, anche quando ha davanti cose o persone che non ha voglia di affrontare. Il signore del supermercato, per esempio. Che ogni volta che ci va con la mamma gli domanda qualcosa, solo per farlo parlare, per sentire se balbetta ancora oppure no. Poi guarda la mamma e con aria sconsolata le dice Passerà signora, vedrà che prima o poi non lo farà più. Allora lei gli stringe la manina e lui si sente pieno di quell’acqua magica che ha il sapore dell’amore. Dev’essere un regalo della sua mamma. “La nostra casa era a due piani. Di sopra c’era una specie di magazzino dove mio padre metteva tutti i viveri che riusciva ad accumulare, e che dovevano bastare per tutti e sei. C’era una grande finestra che guardava i campi, davanti. A fianco a noi ci stava un’altra famiglia, i muri delle due case erano confinanti. Tra uno e l’altro ci passavo giusto io.” Quando parla, tiene le mani intrecciate, appoggiate al sedere, dietro. Cammina così, con le mani sempre nella stessa posizione. Quando l’ha visto la prima volta gli è piaciuto così tanto che d’istinto ha provato a farlo. Scemo che è, mica gli è venuto in mente che era in bicicletta. Per poco non sbatteva la faccia sul manubrio. E poi la mamma chissà che male sarebbe stata. Ha fatto delle prove a casa, da quel giorno. E anche a scuola, ora, quando arriva cammina così, la schiena bella dritta e le mani sul sedere. Gli sembra di essere uno importante, di avere anche lui un sacco di cose da rac-contare, come l’uomo fa ai suoi amici animali. Loro gli stanno sempre a fianco, un pochino spostati indietro, perchè lui è il capobranco, questo l’ha capito, l’ha visto come funziona, nei documentari. Se avesse degli amici, gli piacerebbe essere anche lui il capobranco. Così tutti lo ascolterebbero, anche se balbetta. Non come ora, che se capita gli altri perdono la pazienza e cominciano a parlare tra di loro, e qualcuno ride pure. Non capisce proprio perchè tutti corrono sempre così. A lui piace andare piano a parlare. Tanto, quello che deve uscire dalla bocca mica si perde da qualche parte, no? E allora, perchè mettergli sempre tutta quella fretta? “Mi arrampicavo su piano piano, un piede su un muro e l’altro su quello di fronte, le mani che si aggrappavano come meglio potevano ai granelli grezzi delle pareti. Poco alla volta arrivavo in cima, e là, seduto sul cornicione della finestra, mi aspettava la ricompensa. C’era un grande albero di fico che correva lungo il confine tra le due case. Saliva in alto appoggiato ai due muri. Il profumo dei suoi frutti si sentiva sempre, in quella stagione, come se fosse una caratteristica dell’abitazione. Come un colore, o una forma. Non si poteva fare a meno di coglierli, sarebbe stato un insulto, soprattutto nella nostra terra, dove si mangiava come doni ciò che offriva. Qui ora è tutto diverso… Sembra quasi che siamo noi a fare un favore alle piante che lavorano. Si va al supermercato e si sceglie. Semplice. Ciò che rimane invenduto è là alla sera all’ora della chiusura, e sarà là anche il giorno dopo, quando si riapre. Una volta invece, si coglieva con onore e gratitudine quello che le piante portavano addosso. Anche perchè se non lo facevamo noi, c’era qualcun altro che ne avrebbe goduto al posto nostro. E non ci si poteva permettere di perdere un’occasione per mangiare. Lassù, in cima al cornicione, ci arrivavo solo io. La famiglia che ci stava accanto non aveva figli piccoli e i miei fratelli sembravano non importarsene. Era il mio regno. E quando arrivava l’odore del temporale, in un lampo sparivo. La mamma non voleva che andassi fino a là in cima, temeva sempre che potessi cadere. Non mi è mai successo, per fortuna. Ma ora che mi ci fate pensare, voi non fatelo mai! A terra c’era di tutto: pezzetti di vetro e sassi di varia grandezza. Avrei potuto davvero farmi male. Ma non me ne curavo… C’erano le nuvole, da osservare. E i fichi da mangiare.” Rallenta, pensando a tutte le volte che la mamma gli ricorda di non correre. O di fare attenzione agli spigoli. È sempre pieno di lividi, fin da quando era più piccolo. La sua pelle sembra avere una calamita all’interno, che attira i guai. E li tiene lì. Come le parole che trattiene dentro, e che fanno così tanta fatica a uscire. L’uomo davanti a lui – ecco perchè gli piace tanto! – sembra avere lo stesso problema. O almeno qualcosa di simile, ma solo in alcuni momenti. Perchè si è accorto che, ogni volta che lui si prende un po’ indietro e deve accelerare con la pedalata perchè ha paura di perdersi un pezzo del racconto, quando ritorna vicino alla compagnia le parole sono ancora ferme lì, come se lo stessero aspettando. Come i vagoni del treno che ha visto alla stazione quella volta che con la mamma è andato a prendere lo zio. Erano fermi e aspettavano lui… Poi quando è arrivato, si sono mossi un po’ alla volta. E alla fine si son messi a correre. Le parole dell’uomo, uguale! Se ne stanno lì ferme quando lui si allontana un po’. E poi, quando lui arriva, riprendono a scorrere, dallo stesso punto. Forse fanno fatica a uscire, come succede a lui. Però, non capisce perchè all’uomo succeda solo quando lui si allontana e non lo può più sentire. Sarà una forma diversa di quel tipo di “problema”, come lo chiama l’insegnante a scuola, quando parla con la mamma. Lui non ha mai capito perchè parlano di problema. Le parole non c’entrano con la matematica, o almeno non secondo lui. Boh. Ma è meglio tornare ad ascoltare. “Mangiando, pregavo. Il mio masticare era ritmico, a scandire le parole della mia preghiera. Signoruzzo, fa che piova anche lì. Signoruzzo, fa che piova anche lì. Signoruzzo, fa che piova anche lì.” Questo Signoruzzo gli sta simpatico. Deve ricordarsi il nome, anzi è meglio fermarsi a scriverlo. Fuori il blocco e il pennarello, via a scrivere e poi via tutto dentro al marsupio un’altra volta. Non è sicuro di averlo letto altre volte quel nome. Però gli mancano tante figurine, l’album è così grosso. Gli ci vorrà molto a completarlo. Deve guardare nella parte dedicata all’acqua, di sicuro è uno di quei supereroi che fanno le magie con l’acqua. In effetti, è la parte della quale ha meno figurine. Ha completato quasi tutta quella del fuoco, dove c’è l’uomo Torcia che gli piace tanto. E anche quella dell’aria, con Mister Tornado. Dell’acqua non ricorda nomi, al momento. Forse ce ne sono meno. Ma ora deve rimettersi a pedalare, anche perchè tra un po’ è sicuro che la mamma lo chiamerà. È quasi ora di andare a scuola. Vediamo se Signoruzzo riesce a far piovere. “I campi che ci stavano di fronte erano tanti. Noi ne avevamo uno, grande, da coltivare. Non era nostro, in realtà, era del Barone, ma ce lo faceva lavorare e poi dividevamo il raccolto.” Un barone! Wow! Per poco non si incespica, questo cavolo di pedale. “Poteva fare una grande differenza sul raccolto finale avere una pioggia oppure no. L’acqua del cielo sembrava razionata, non sarebbe mai bastata per tutti i campi. Capitava che la nuvola scura e buona venisse portata a spasso dal vento, fino a due minuti prima magari sembrava che arrivasse dritta dritta al nostro campo, e poi d’un tratto il vento faceva il cattivo, e se la portava da un’altra parte. Non era facile, insomma. Quindi, quelle rare volte che succedeva, io per primo me ne accorgevo, da lassù. Aspettavo un attimo prima di partire in picchiata, giusto per essere sicuro di non sbagliarmi, altrimenti la delusione di tutti poi sarebbe stata grande. Ma quando ero sicuro davvero, quando mi pareva che fosse proprio il nostro campo laggiù in fondo, a chilometri di distanza, che stava bevendo, finalmente, allora me ne correvo giù, urlando come un matto, scendevo dal cornicione e con i piedi appoggiati sui due muri come fossero sulle uova, volavo, veloce e leggero, e urlavo di gioia alla mamma, ai miei fratelli, ai vicini, a tutti! L’acqua, l’acqua, finalmente, l’acqua!” Signoruzzo dev’ essere un po’ sbadato, allora. Non sempre riesce a far piovere nel posto giusto. Sarà una delle sue caratteristiche, forse. Però, proprio per questo, sente di volergli già bene. Non gli piacciono tanto quelli che sanno sempre cosa fare. Che non si sbagliano mai. Che parlano bene, senza incespicarsi. Non li sente suoi amici, perchè spesso loro non lo vogliono. Ma lui sta bene lo stesso. Gli basta alzarsi tutte le mattine presto, e andare all’appuntamento con la compagnia. Da quando lo fa, poi sta meglio tutto il giorno. La mamma l’ha capito – un giorno l’ha vista parlare con l’uomo, prendere accordi, o almeno così gli è parso, ma magari si sbaglia, secondo lui non si conoscono – e glielo permette sempre. Lo sveglia quando gli uccellini cominciano a cantare e fuori è già chiaro, ma tutti dormono! Solo lui e i suoi amici sono così forti da uscire così presto… La colazione la fa dopo, quando rientra. Esce in pigiama, indossa il mantello invisibile, prende la sua bicicletta verde e raggiunge i tre che sembra quasi che lo aspettino. Ma non può essere, perchè è sicuro di non essere mai uscito senza il suo mantello magico. L’uomo non può averlo visto, e tantomeno Albicocca e Mister Big. Anche se a pensarci bene, nei documentari in tivù dicono sempre che gli animali hanno uno speciale istinto. Chissà, forse loro sentono la sua presenza, anche se non possono vederlo. Comunque, sta di fatto che appena lui arriva, i tre iniziano la loro camminata. E l’uomo comincia a raccontare. Sta imparando un sacco di cose, da quando lo ascolta. Le parole nuove che porta alla maestra, almeno quelle che poi non cessano di esistere, le tiene scritte nel suo blocco come fossero un tesoro. È sicuro che l’uomo gli fa dei regali, così, ogni giorno. È un uomo buono. E di sicuro anche i suoi occhi contengono i fiumi della felicità: a volte quando parla gli sembra che si fermi un attimo ad asciugarli, con il dorso della mano. Deve averglieli regalati la mamma, quella mattina che l’ha vista parlare con lui.
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