La matematica non è mai stata il mio forte eppure, sebbene l’avessi aborrita e mi fossi indirizzato su vie più “umanistiche” mi ritrovai a doverla riaffrontare per l’ammissione all’università.
Stavo studiando per entrare a psicologia e quel lunedì la mia mente di risolvere quesiti non ne aveva minimamente voglia. Ero fermo su di un problema da qualche minuto quando la mia pazienza – la mia più grande dote – vacillò al primo fallimento. Mollai tutto e desiderai di sbronzarmi, magari di contattare qualche amico – quelli con la roba buona – e mandare a quel paese tutto perdendomi negli stati alterati di
coscienza. Anzi, perché non prendere le cose alla lettera e partire con lo zaino in spalla all’avventura? Perché come ben sapevo avevo ancora troppe cose da perdere e in fondo, seppur nella mia merda, stavo ancora troppo bene. Dopotutto ognuno c’ha la sua di merda, non vi pare?
Comunque, dopo aver vagato come un’anima in pena per casa, sbuffando più di un toro, decisi di risedermi e tentare. Niente da fare.
Mi tirai una cinquina sulla guancia con la mano destra con tutta la forza che avevo. Badate, non sono un autolesionista, ma in quel momento l’antifona era me o il computer, perciò comprenderete che decisi di optare per la soluzione più conveniente.
Iniziai a scuotere lentamente la testa, appoggiata alla mano punitrice, mentre ripetevo a bassa voce “una cosa è certa. Io e te abbiamo un problema”.
E fu grazie a quelle tantriche parole che ricordai un episodio avvenuto qualche anno prima: c’avevo una ragazza a 17 anni, in realtà non era la mia ragazza, ma qualcosa di, boh, ambiguo; però diciamo che era la mia ragazza. Si chiamava come la “Tata”, una serie tv che ogni ragazzino degli anni novanta avrà sicuramente seguito, Francesca per l’appunto ed era un bel pezzo di donna. Cazzo se lo era! Non era bellissima, ma c’aveva quel non so che in più, quello spirito, quel demone che lo fa rizzare ad ogni maschietto. Era tremendamente sexy in ogni suo movimento e c’aveva delle cosce, ragazzi! Che glutei! Senza contare i lunghi e ricci capelli biondi. Era una di quelle a cui dovevi prestare attenzione, con un capriccio per ogni boccolo per intenderci, ma io di paura non ne ho mai avuta, perciò mi feci centrare in pieno dallo stronzo con l’arco.
Ma cari miei avevo un problema: lei mi amava come amico. Ora, comprenderete che in una situazione come questa qualunque sano di mente vi direbbe “lascia perdere, amico! Finirai per farti del male” o la sempre verde “meriti di meglio”. Anche io lo farei e l’ho consigliato più volte, ma vedete, sono incoerente! Così come incoerenti sono tutti i buonisti dispensatori di consigli, perché posti davanti al fuoco della passione e
dell’amore non corrisposto pensiamo tutti di non poterci bruciare. Tant’è che una volta eravamo al mare. Passammo una giornata stupenda: sole, onde e birra. Cavolo, amava la birra e come la tracannava! Dio solo sa quante erezioni ho avuto vedendo le gocce di birra scivolarle dal
mento verso il caldo e luccicante seno evidenziato dall’effetto riflettente dell’abbronzante.
Ci accingemmo, ad una certa, verso le docce quando, non ricordo come, entrammo nei bagni dei bambini, dove al momento non era presente nemmeno un’anima, e ci infilammo dentro una di quelle docce, chiudendoci all’interno e cominciando uno dei nostri rituali.
Guardavo la corrente scivolare lungo la spina dorsale e penetrare dolcemente nel costume inzuppato, che poco lasciava all’immaginazione. Di soppiatto, con fare felino, la cinsi con le mie braccia mordendole delicatamente il collo; in basso il mio membro appoggiato ai suoi glutei faceva risacca accumulando acqua che gorgogliava ai lati bagnando le nostre gambe. Lei era compiaciuta! Ci giocava con la sua forza erotica e sebbene adorasse quelle attenzioni, schivava i miei baci mandando in acido il mio sangue. E per quanto fossi fremente di voluttà nei suoi confronti pure io adoravo questo nostro gioco delle parti. Non so se sarei mai riuscito a sfilarle il costume e a sfogare tutta la tensione erotica che mi creava, so per certo che qualcuno ci aveva notato: un bagnino piuttosto alterato venne ad interrompere i nostri rituali di coiti interrotti infastidendoci terribilmente. Che vi ho detto!? Una bella gatta da pelare! Ma per quanto potessi essere invaghito, ogni candela si consuma e decisi di risolvere la questione nell’unico modo possibile, troncando.
Non ero mica uno schiavo dopotutto! Già, uno schiavo ha coscienza della sua condizione in difetto e forte di questa consapevolezza opera nel tentativo di sovvertire tale status. Io non ero uno schiavo, ero qualcosa di peggio! Ero il più fedele dei cani e volete sapere quale era la cosa più problematica? Lei ne era consapevole. Qualche mese dopo mi chiese di incontrarla e come uno stolto abboccai. Parlammo qualche ora fino a che, stanco di essere ipnotizzato dal movimento insopportabilmente sensuale delle sue labbra, cominciammo a litigare. Mi applicai talmente tanto che riuscii a farla piangere. Ma la mia soddisfazione durò un millesimo di secondo, dato che – come ben saprete – c’è un problema quando si ama una donna: le sue lacrime abbattono le convinzioni degli uomini retti, facendogli assumere il peso del torto. Mi sentii un verme.
Ci incamminammo nel corso di Vicenza quando si bloccò davanti ad una vetrina ad ammirare un copricapo. Lo bramava; io bramavo lei; il mio cervello la pace! Così per proprietà transitiva decisi di comprarle il cappello e lì, in quell’istante avvenne l’inspiegabile: mi baciò.
Avevo sognato a lungo di poterla mangiare di baci e dopo tutta la fatica che avevo fatto era bastato un cappello? Pensai di aver fatto Jackpot, ma in realtà ero ben lontano dalla risoluzione del problema. Nei giorni a seguire non ebbi più baci, ma tante scuse. Alla fine la rabbia prevalse sull’affetto e istituii l’embargo anche sulla nostra amicizia. Non la rividi più. Chissà che fine ha fatto? Ogni tanto ripenso alla vicenda e non posso che riderci su, ma a distanza di anni ancora non capisco il motivo di quel bacio.
Volete sapere cos’ho compreso? Nulla, ma se non altro ho risolto il quesito di algebra
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